Giunco 2018. Mesa. Vermentino di Sardegna doc.

Vermentino proveniente dal Sud della Sardegna, da quella terra arida e bianca, arsa dal sole infuocato e battuto ora dal Maestrale ora dallo Scirocco. E la difficoltà della vite si ritrova nel vino: scorbutico, duro, persino verde, meraviglioso… I profumi sanno di grande freschezza e gioventù, dalle erbe aromatiche ad agrumi verdastri. In bocca è pura elettricità, una scarica di energia vigorosa: una torpedine! La freschezza è tale che mai immagineresti il volume alcolico indicato in etichetta; e rimane intatta sulle papille per molti secondi, lasciando poi lo spazio ad una piacevole nota salina che permette un perfetto abbinamento a piatti di crudità di pesce.

d.c.

Karmis cuvée 2018. Contini. Tharros Igt

Le misteriose uve autoctone, componenti la cuvée, non sono altro che la Vernaccia di Oristano (questa volta vinificata in versione “liscia” ossia senza flor) ed il Vermentino.

È un monumento all’estate, dal colore che assomiglia ad un estratto del sole di mezzogiorno, ai profumi intensissimi di fiori gialli e di frutta gialla, al gusto caldo e ricco di dolcezza fruttata. Vino giocato interamente sull’intensità, portata a livelli difficilmente duplicabili. Si perde un po’ la matrice delle basi “originarie” (la Vernaccia solo raramente traspare al naso con qualche aroma candito), ma il vino indubbiamente stupisce. Abbinamento non immediato: avvicinato a diversi piatti di pesce, forse emerge prepotente come aperitivo accompagnato da qualche amuse bouche marino.

d.c.

Vermentino 2018. Guado al Tasso. Antinori. Bolgheri doc

Credo che il Vermentino sia l’unica uva a bacca bianca coltivata, da Antinori, nella piana bolgherese di Guado al Tasso: lascio ai prossimi curiosi visitatori la verifica. Verdognolo alla vista; i profumi sono freschissimi e improntati su scie floreali bianche, forse su tutte il biancospino. Solo al leggero riscaldamento del vino affiora un po’ di pesca ed un goccio d’aranciata. In bocca però, dove ti aspetteresti pari freschezza, la prima sensazione è di calore, pur di fronte ad un volume alcolico nella norma, un po’ coprente e mai in equilibrio con la freschezza, che in un vino così sarebbe assolutamente preferita. Bella, in chiusura, la sapidità che permea la bocca.

d.c.

Vignadangelo 2018. Mastroberardino. Greco di Tufo docg

Che avessimo una sete atavica, non vi era alcun dubbio: dopo aver navigato l’intera giornata sotto il sole con il mitico Candelluva II, ed essere approdati in rada a Punta Chiappa, l’unica cosa che si desiderava veramente era di portare ristoro alle fauci infuocate. Ed infatti poco sono durate le tre bottiglie di Vignadangelo (pur considerando che tra minori ed infortunati chi poi bevesse erano solo in tre…).

Giovanile alla vista ed all’olfatto, con un gradito emergere di albicocca e pesca, ma anche di tenui erbe aromatiche che contraddistinguono la nobiltà della divina bevanda. In bocca prima arriva la sensazione di morbidezza per poi strutturarsi con note più dure, uscendo dal cavo orale con un’impronta salina.

d.c.

Ronco Calino Brut. Franciacorta Docg

… e poi non sono oggettivo! Ho un debole per questa cantina, e per la strenua e continua ricerca di qualità che affiora da tutti i loro prodotti. E per cui, dal momento che non sono oggettivo, non vi parlerò di questo straordinario Brut! Si… perché è quella gamma che una volta si chiamava “base”, ma che in realtà è il vero termometro e prova di chi lavora sempre bene, dalla “base” alla Riserva Millesimata Extra Brut Turbo Esse etc.etc. Nel bicchiere è pura eleganza, di un giallo abbastanza carico e solcato da un perlage nobilissimo. Gli zuccheri sono pochi, lo si può già percepire al naso, dove la frutta gialla è croccante, accompagnata da tanta frutta secca. Ma è la straordinaria correttezza in bocca che ti fa innamorare del vino, giocato su un equilibrio bilanciato tra l’imponente durezza acida ed una rotondità palatale che non diventa mai morbidezza. Ma non fa niente… lasciate stare… io non sono oggettivo!

d.c.

Pinot nero Brut 2013. Podere Bignolino. Oltrepò Pavese Docg.

Un elegante aspetto giovanile con riflessi verdognoli solcati da una fluida produzione di bollicine di minime dimensioni. Al naso emerge un pinot ancora un po’ rustico: i cinque e più anni dalla vendemmia hanno “digerito” la fraganza dei lieviti ed hanno lasciato la netta percezione di polpa di mela anurca (anche leggermente ammaccata). Ora non vorrei esasperare toni negativi, perché non è questo il fine, e perché, nel complesso, il vino si fa bere con piacere, ma il ricordo è… rustico! Bella la struttura che si percepisce al palato, molto inquadrata tra le durezze, con percezioni di spiccata ed inattesa sapidità.

d.c.

Loacker non solo wafer

Siamo a cena in un maso del 1200 in Val Gardena. I piatti sono naturalmente a chilometro “super” zero così come le proposte della carta dei vini che, seppur “minimal”, presenta un’interessante selezione del territorio altoaltesino.

E’ così che ci imbattiamo in questo Gran Lareyn – Lagrein Riserva 2015 di Loacker. Scopro quindi che la famiglia Loacker oltre a produrre i celebri e buonissimi wafer è anche produttrice di vino e proprietaria di tre tenute: una in Alto Adige, la seconda nel cuore della produzione del Brunello a Montalcino e l’ultima sempre in toscana nella Maremma.

Ma torniamo al nostro lagrein, pluripremiato in diverse annate della rassegna bolzanese dedicata all’autoctono vitigno. Sigillato da un elegante tappo di vetro una volta aperto l’intenso rosso granato appare polposo nel bicchiere. Raffinato e profondo al naso, emerge la viola poi vigorosa mora seguita da leggeri sentori di fumè. Morbidezza al palato ben supportata da acidità. Distante dai lagrein più commerciali, si distingue per eleganza e piacevolissima beva.
Buona la persistenza, lascia il palato pulito.

Non resta che mangiare un Loacker per chiudere in bellezza…

R.R.

Animante. Extra Brut. Barone Pizzini. Franciacorta

Visivamente perfetto. Il giallo è oltremodo brillante e le bollicine, minuscole, nobili e perduranti. Il profilo olfattivo quanto mai originale: l’agrume in varie sfaccettature è il tema dominante passando da un iniziale bergamotto inatteso e scorbutico, ad un netto tarocco, per poi atterrare ad un più docile pompelmo rosa. E la stessa percezione elettrica, giocata sulle asprezze agrumate, si trasferisce al palato. Vino di straordinaria unicità ma che esige un calibrato ed adeguato abbinamento: assolutamente piatti di mare, privilegiando composizioni di crudo, ovvero in abile Tempura.

d.c.

Il Montanaro 2013. Pecorino. Offida docg. Cantina Offida

Troppo poco raramente oramai, al contrario dei miei compagni di viaggio… ops di blog… riesco a dedicarmi un po’ di tempo per andare per cantine, a provare se le mie papille funzionano ancora (le emozioni si! Sono ancora tutte integre…). Quasi per sbaglio, ed in compagnia dei miei bambini mi sono trovato nel piccolo paradiso di Offida a provare il Pecorino insieme al “Capo” della Cantina Sociale ( osservate come la forma societaria non sia una cooperativa bensì una società di capitali: anche il mondo contadino del vino si sta trasformando!). I bicchieri si assommano, le chiacchiere diventano più fluenti, i ricordi scappano… per fortuna che rovistando tra le bottiglie scovo un 2013: forse è anche l’ultimo (ci sono americani e francesi che accanto a me stanno facendo incetta di bottiglie giovani). Sarà questo il mio ricordo di Offida.

Una ancora gradevole ossidazione si sprigiona dalle pareti del bevante. Il giallo è carico, ma è vivo. Il fluido è pesante, ha una viscosità antica, vuol far pesare tutto il suo corpo. I profumi sembrano provenire da un cesto dopo una repentina raccolta in un frutteto di frutta ancora non matura: c’è l’albicocca, le nespole, le percoche. Poi affiora il verde da sfalcio dei pascoli d’altura marchigiani, ricchi di erbe aromatiche. In bocca il vino è duro. L’acidità è aggressiva, non dà scampo, un po’ è scomposta. L’alcol, imponente, affiora solo alla fine, regalando al palato una persistenza che il vino non avrebbe. Le papille tornano al verde dei prati, le emozioni sconfinano in panorami unici.

d.c.

Piaggia 2005. Mauro Vannucci. Carmignano docg Riserva

Caldo. Caldo afoso. Ma tra i programmi della serata c’è un’attesa grigliata di carne e per cui non ci siamo fatti intimorire dal volume alcolico, a dispetto delle temperature “esterne”. Da tempo puntavo all’apertura del Carmignano Riserva e devo ammettere che le attese sono state ampiamente ripagate. Nonostante i quasi tre lustri appare alla vista vivo, di un rubino acceso. Ma sono i profumi che ammaliano: inizia una mora di gelso appena raccolta, segno che la riduzione in vitro non ha leso un’indomabile forza espressiva. Poi la progressiva ossigenazione lascia emarginare percezioni uniche ed originali: dalla battuta di carne, al crostino toscano, quello con i fegatini, ed infine ad un’incredibile pasta d’acciughe. In bocca l’equilibrio è ancora solidissimo, non facendo mai prevalere o l’acidità presente e nascosta ovvero l’alcol riportato in etichetta, ma mai percepito per quell’entità. E la magia si conclude con un ritorno di marasca dolce che ci fa pensare che questo Carmignano avrebbe potuto essere immortale…

d.c.